POESIE
Serpigo
Canto I
Catene di serpenti opprimono lunghi viali di vetro,
vasi blu
e vene tenere, ferite
vene tenere
nei corpi uniti degli uomini,
nel ventre nudo della terra,
e vene tenere
nella pelle vitrea dei cieli.
E tutto racchiuso in un cuore solo
e ormai secco.
Il sangue
caduto e coagulato nel dorso dei serpenti.
Non restano ormai che spoglie,
bioccoli dissolti nell’aria.
E nello spazio
Un lungo anello che si dilata,
un circolo,
l’ultima apparenza.
Canto II
Migliaia di sogni volteggiano
Intorno ai muri
Cercando arie lontane e marine,
magnitudini ancora non raggiunte,
orrori non ancora misurati.
Ma tutto è qui ancorato
In ebbrezza di metalli e catene,
in ferramenta non ancora usate,
in perdute costruzioni
e in orgogli
e numeri decapitati.
Qui è tutto ancorato
in quest’isola
cinta,
solitaria
e naufraga
tra le costellazioni sognate
in cui cresce sterile
il ferro e la parola.
La naura si maschera
In un contrappunto di orgie
E uccelli disfrenati.
Gli uragani
e le onde
giocano la loro pantomima.
E il riso,
e la marionetta,
e il buffone
si svegliano.
I muri rabbrividiscono
E l’isola s’immerge
Mutilata,
nei profondi pantani della sua burla.
Gli oceani fondono,
danzano
l’acrobatica danza della morte
e si perdono
curvandosi in vortici grotteschi.
E nella lavagna nera della notte
resta per sempre spaccato il gesso.
Moloch
....
tracciato è
il cammino dell’olocausto
l’acrobata e la bambola
giocano all’amore
le nazioni si svegliano
e alle fiamme
fanno offerta della loro tenerezza
coronano di ghirlande
l’esilio della notte
squarciata la distanza
dolente esiliato dalla madre
ospite non più si fa della terra
e cingono i loro corpi
con gli scudi del combattimento
fortezze della fame
che divora sè stessa
intonate nazioni
i canti di guerra
consegnate
al turbamento della catastrofe
il gioco dei giardini
dove edificaste
la tortura
dei nani e giganti
fruste ferenti della parola
che nega o afferma
mascherati colpi di metallo
le maschere cieche di cemento
dove si occulta
stentoreo
il riso del boia
intonate nazioni
i canti di guerra
il cammino dell’olocausto
è tracciato
risplendete un istante
tra le fiamme spirali
volgete il volto
cinto
dal serpente dell’arcobaleno
alla catastrofe
e la morte dei popoli
sia definitiva
che il banchetto delle cose nate
si dispersi
ai venti!
L’ascia primordiale
tagli
l’albero luminoso dell’esistenza
e sterile
si sparga la savia
per mondi innumerevoli
flagelleranno le montagne
tempeste di sale e zolfo
feriranno le pianure
apriranno rossastre piaghe
dove cresceranno le cose maledette
per la terra
sesso-tomba tu
ormai disunita da ciò che è nato
genererai stertori
rifiuterai
ciò che vive nelle tue viscere
e tu
ormai disunita da ciò che è nato
il sudario solo può coprirti
e divorerai
come cadavere
ciò che abiterà nelle tue viscere
che i giorni e la notte
svaniscano!
Che scorrano i fiumi senza destino
senza nomi nè parole!
Scorrano
senza destino i fiumi
nell’incertezza.
Mantis
In memoria di Fernando Aldecoa
e Antonio Sendino
Suonavano le campane si fece crepuscolo
voci martellanti l’angelus
svegliate i morti
a coloro che scelti implacabili le ore
fiori cinsero amare gialle la loro vita
live anello messaggero –non maledetta la speranza
cieca lingua senza aurora i frutti impossibili
muta vendetta offerta tarda i viventi
ebbero invocato crudeli fulgidi destini
intime insospettati piaceri sonorità
nelle profonde cantine sensitive
che avranno fermentati grotteschi i misteri
Svegliate i morti suonavano le campane
e tra coloro colui che così vicino fu
ahimè alla tenerezza
toccando il nulla che l’esistenza gli offriva
giacchè aprire non rifiutasti le vene al vento
quando tremolii furono celesti tende
quando trecce d’oro vollero corporee
strappare alla tua fronte tragica memoria
forse placida nostalgia di lontane nozze
appena chiamandoti ignara dolcezza corone
di fiori mai immaginarie se letame
raggirandosi nella terra apristi le vene
al vento una non desiderata aurora
Ritorna ricorda fosti era il carcere
fosti nel muro accanto invocato
dimmi i colpi P4R era la vita
non so quale smorfia fu la morte
adusti finestroni ripetono incessanti
nocche nei ferri che fanno abortire speranza
Che orrore di campane appassiti i tormenti
che crudeltà in te e a te che vi nomino
amici miei nel più illimitato dell’assenza
mise strane melodie nelle vostre labbra
visioni amare che abbandoneranno i vostri occhi
Chi vi chiama? Venite
alla parola che cerca l’incontro torna
fosti nel muro accanto invocato parleremo
di desideri che ormai non appartengono agli uomini
Ricorda anche tu ricorda mio amico siediti
a tavola ignoravi le parole i fili
incerti che legano l’albero alla terra
la terra al cielo e il cielo alla chiamata
segno di Abramo caduto nella tua fronte
Ignoravi le parole c’era compiutezza
uccide sempre il padre nel suo desiderio il figlio
che non riconosce era se stesso
rifiustasti il delitto e tu la vittima Isacco
dei più alti amori senza chiedersi
neanche se era il nulla o sogno
del nulla ciò che desideravi vivere
nè gli angeli fermano la mano del boia
se il miracolo li scaccia
Siediti a tavola amico mio
la scacchiera è disposta
le nostre dita muovono come fili finte
marionette di un impossibile condannato
Si sposta o il cavallo o gioca il fante o la torre
mossa definitiva non indietro! L’errore era la colpa
solo il caso ama così tanto ciò che è determinato
Sapevamo a volte frequenta il sacrificio
ultimo giubilo irrepetibile
il bacio più tenero della morte
Scusate amici profonda sofferenza la mia audacia
se vi chiamo e vi vorrei così vicini a me
in questa seconda distruzione, chi vorrebbe fare ritorno?
reclama colui che mette in celle le cose morte
quando unico voi dite l’esistenza
suonavano le campane si fece crepuscolo
voci martellanti l’angelus
svegliate i morti
Hipofanías
Chiusa è la porta
Chiusa è la porta delle folgorazioni
i muri
orizzonti calcinati
le screpolature,
insetti
di cemento, ingoiatrici avare
gioiose del non si sa quale futuro
che annegasse
i sensi invisibili
dell’aria
che inondasse
di lampi e uccelli insonni
la verdeggiante fosca maternità dei boschi
- nella sua savia abissale fiorire
del sangue
nel suo fluire la pelle e gli occhi
ondeggiare della meraviglia -
Lo sguardo
stigma dello sguardo vede,
occhi fissi senza volume nello specchio,
la sua celata fronte fusa nel vetro
a ferro
segno rinchiude angoscia lo sguardo;
di corpo - brutale germinazione - a corpo
laminato
prigioniero nel ceppo cristallino della dualità,
inclemente bulicame dell’insalvabile distanza,
il desiderio in vano strappa schegge
a ciò che separa,
è
irreversibile
già nel tempo ed è fame perpetua
Dove
roseo amplesso con timida aurora?
Dove
la danza
con celesti esalazioni marine?
Dove
il vivere anonimi miracoli della materia?
Miracoli
ospitali doni anonimi miracoli
sagomati
in sradicate folgorazioni
congelati
in ruvida tettoia invecchiato cielo
legno
muto
sommesso palpito vegetale
che da ombra dilettevole
raccoglimento
ospita ciò che la mano attenta
dominatrice
esiliato
a nome
imprigionato in energico contorno
strappò
- lacerante squarcio -
a natura.
Rouco lamento
del fango
umile si lamenta lo sparto
nè la brina
nè la luce
mattutina alla sua supplica rispondono
la derubata di sabbia solare conchiglia
singhiozza orfana
risonanza
di settembrina marea sommersa nella sua gola
messo da parte
è rosario di frutta secca in attesa
della mano che previdente
culmini il desiderio.
Come una serpente il futuro si allaccia serpente
iniziale all’albero
macilento,
attanagliato, della vita
si anellano serpente e serpente passato e futuro
e si ammalano quel che
fosse un giorno
forse, piena presenza.
Oscuri venti emanati dalla memoria stampano
Parassite immagini: brina
sparto
fango
spettri risorti: aurora
sabbia
bosco
nel presente avvelenato specchio del presente
ferito
di sottili veleni, esecuzione
dell’istante
ormai perso e la sua perdita la morte.
Rivive afflitta addentrata in se stessa la vita,
rivive
e discesa dal passo del passato
nè alberi che velano nè pienezze succose,
dolcissimi
frutti di mezzogiorno eterno, rallegrano
l’insondabile
fosca maternità verdeggiante dei boschi
posseduta
tra alti geometrici muri dove
le screpolature
insetti pungenti sarcasmi di cemento
umiliano
l’agonia dei giorni in cui il tempo
ricrea goffamente l’illusione di ciò che fu infinito
e prigioniero
nel bulicame dell’insalvabile distanza
ancora ravviva
il desiderio ospite della morte e ravviva
la morte che abitata dal Desiderio è L’Immortale.